Due stelle e uno stile, fatto di solidità e di gustosa italianità
Claudio Sadler c’è. Con le due stelle Michelin a riflettersi nelle acque del milanese Naviglio Pavese e a illuminare un ristorante che porta il suo stesso cognome: Sadler. Sinonimo di stile solido e concreto, di professionalità e di competenza, di pietanze dalle profonde radici italiche e di una creatività che non si esprime in un volatile manierismo ma in una palpabile e palatabile armonia.
Così è monsieur Claudio Sadler. Un uomo: nato a Milano nel 1956, da padre trentino e madre mantovana. Un papà: di Giulia, che studia scenografia. Un marito: di Vittoria, professoressa di lettere. E soprattutto uno chef-manager: al comando di Chic’n Quick e dell’oasi gourmet in via Ascanio Sforza, di due spazi ristorativi in quel di Rho Fiera e di un ristorante a Pechino. A cui si aggiungono le altre attività da lui curate: le lezioni di cucina, la consulenza per il Nobile bistrò di Corso Venezia e il servizio catering. Satelliti culinari di uno stesso pianeta sadleriano.
Che, gira e rigira, è sempre lì, sul Naviglio. Con il suo vivace staff, con la cucina visibile dalla strada e con un’accoglienza sincera. Incorniciata dalle pareti in legno zebrano della moderna trattoria e dalle salottiere atmosfere dell’isola stellata. Impreziosita dalle pitture geometriche del maestro Hsiao Chin. Linee parallele e cerchi concentrici pronti a ritrarre idee in circolo sulla retta via claudiana.
L’intervista a Claudio Sadler
Claudio, come nasce una ricetta?
“A volte, elaboro un pensiero. Altre, prendo spunto da un prodotto. Altre ancora, mescolo ingredienti provenienti da più regioni. Ma parto sempre dalla stessa sorgente: l’italianità. Perché i piatti devono avere radici profonde nel territorio e non essere fini a sé stessi. Insomma, prima seguo delle tracce ben definite. Poi mi distacco. Facendo un remake della tradizione e dando un input personale alla pietanza”.
Come accade per gli asparagi verdi alla milanese con spuma di Grana Padano 27 mesi, uovo di Parisi cotto a bassa temperatura e funghi trombetta in tempura. Una brezza di primavera in cui l’orto, l’aia e il bosco stanno sotto l’occhio vigile della Madonnina.
“Credo che un cuoco moderno debba salvaguardare il patrimonio culinario della cucina italiana. Certo, può modificarlo e migliorarlo – perché i tempi cambiano – ma mai distruggerlo. Altrimenti si vanno a realizzare piatti che non lasciano un segno e che, inevitabilmente, si abbandonano”.
Invece il tuo menu è formato da portate “millesimate”, che specificano l’anno della vendemmia creativa. Quasi a voler delineare chiaramente l’evoluzione della tua cucina.
“Alcuni piatti sono perfettibili, altri perfetti. E se un piatto mi convince lo lascio. Dichiarando attraverso l’anno di nascita qual è una novità e quale un classico. Al fine di orientare meglio il cliente. Per esempio, la padellata di crostacei con crema di broccoletti e patate cristallo croccanti è del 1996. Ma la chiedono sempre e a me dà grande soddisfazione. La regola è: rispettare le esigenze degli ospiti, rassicurarli e farli viaggiare con la fantasia”.
E so che tu ami viaggiare. In carta qualche accenno orientale lo dimostra.
“Dal 2003 al 2008 ho fatto avanti e indietro Milano-Tokyo, che è una delle città più belle al mondo. Qualche tocco giapponese nelle mie creazioni esiste. Perché tutto è mescolabile. Ma poi, nella messa in opera, applico il criterio dei piatti italiani. Altrimenti il cliente si confonde. Lo si nota bene nell’italian sashimi, rilettura mediterranea e stagionale della preparazione nipponica. Ma anche nello shabu-shabu di spada, in cui il pesce viene scottato e presentato con crema di burrata di Andria e barba dei frati”.
E pure nei garganelli con ragù di lenticchie di Castelluccio di Norcia, cotechino Brianza e lattuga al curry. Emilia, Lombardia, Umbria e India in un unico assaggio. Non perdendo mai la matrice italiana.
“Mi piace condensare più sapori in un sol boccone. Accade pure nella costoletta di agnello in crosta di favette e rucola. Amo l’altalena dei gusti. E adoro i contrasti cromatici e materici. Anche se poi un piatto deve sempre essere facile da mangiare. Servito alla giusta temperatura e consumato nei tempi giusti”.
Della serie, genio e regolatezza.
“Sono un Gemelli ascendente Gemelli. Quindi, quattro persone in una. Ho bisogno di fare ordine. O meglio, mi piace il disordine programmato. Sono curioso, non amo gli stereotipi, preferisco la varietà ma devo avere una certa solidità. Gli imprevisti mi infastidiscono. Se devo fare una cosa ho la necessità di organizzare tutto al dettaglio. E il mio piano d’azione va rispettato”.
E gli schizzi artistici dei tuoi piatti rientrano in quest’ottica di perfezione e precisione.
“Disegnare i piatti è l’unica maniera che ho per comunicare ai miei ragazzi secondo quale logica vada assemblata una pietanza. Tra l’altro, uso pastelli e pennarelli. Il colore è fondamentale per far capire la cromaticità degli ingredienti. Poi lascio le bozze in cucina, in modo che le possano consultare”.
Hai uno staff tutto al maschile, mi pare?
“Sì, ma è un caso. Nel mio gruppo ci sono state anche delle ragazze. L’importante è che siano giovani. Cucinare è come giocare a calcio. Ci vogliono resistenza e fisicità. E poi preferisco persone concrete ed equilibrate. Come sono il sommelier Valerio Sità, il cuoco di Chic’n Quick Francesco Manzi e il pasticcere Marcello Rapisardi. Giusto per fare qualche nome. Io mi confronto sempre con loro”.
Sei un uomo che sa ascoltare e insegnare. Tieni anche dei corsi di cucina al ristorante.
“Adoro il contatto con la gente. Io sono timido e riservato e insegnare è un modo per esplicitare il mio sapere. Inoltre, impari a documentarti, ad avere tutto chiaro in testa e a mettere in ordine le idee”.
E la tecnologia ti aiuta?
“Certo. Passo molto tempo nel mio ufficio. Nel computer tengo archiviati sia i menu che i disegni dei piatti. E poi utilizzo internet per farmi una cultura generale, non solo per curiosare fra le ricette. Visto che ho poco tempo da dedicare a ciò che mi interessa: leggere, andare al cinema e visitare i musei”.
E quando si rilassa Claudio Sadler?
“Nella bella stagione vado nella mia casa sul Lago Maggiore, a Castelletto Ticino. Amo potare le piante del giardino, curare le rose, pulire la piscina, fare la spesa. Mi piace essere normale, non un divo”.
Certo che l’acqua la insegui proprio. O è lei che insegue te. La prima stella Michelin, nel 1992, è piovuta sull’Osteria di Porta Cicca, lungo il Naviglio Grande. Nel 2002 si è accesa la seconda nel tuo ristorante di via Conchetta. E adesso sfiori ancora il liquido elemento.
“Milano mi ha dato tanto. L’area dei Navigli però un tempo era più cool, romantica e bohémienne. Ora è troppo pop. Oggi, il mio sogno è quello di trasferirmi in centro. Intanto, ho riletto in chiave sorbetto il cocktail più in voga in questa zona della movida cittadina: il Mojito”.
Me lo fa assaggiare. È verde, brillante, rinfrescante e poco alcolico. Claudio Sadler, invece, opta per una classica coppa di gelato alla crema con le fragole. È proprio vero, i grandi sanno sempre essere semplici.
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