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Marzo

Coronavirus cronache dall’estero: i vostri racconti

Non solo Italia. Francia, Spagna, Inghilterra, Brasile. L’emergenza sanitaria riguarda ormai l’intera popolazione mondiale. E mentre si prende come esempio il modello italiano, molti italiani che vivono fuori, in questo periodo, sentono ancora di più l’inevitabile mancanza del loro Paese e della loro città. Come Milano. Di fronte all’allarme Coronavirus, quali sono allora le sensazioni di chi vive all’estero? Abbiamo raccolto alcune testimonianze

Sono abituata a stare lontana dalla famiglia ma averla vicino e non poterla vedere, immagino, dev’essere straziante“. Oppure, ancora “All’improvviso si prende coscienza e sembra di vivere in un film, tra l’apocalittico e la fantascienza“. Due estratti diversi, due messaggi WhatzApp, uno da Londra e uno dagli Stati Uniti. L’allarme sanitario non tocca ormai, più, solo l’Italia e questi messaggi arrivano da qualche migliaia di chilometri più in là. Il Coronavirus è un’emergenza che riguarda anche chi c’è oltre i confini. Che riguarda anche, quindi, molti italiani che vivono all’estero, dove lavorano, dove hanno famiglia. Le testimonianze di alcuni di loro.

In Brasile, infermieri col doppio turno ma poca percezione

Wesley, 35 anni, non è di origine italiana ma a Milano ha vissuto a lungo. Il suo italiano è perfetto. Da San Paolo, Brasile, dove fa l’infermiere, racconta al nostro giornale: “La popolazione adesso qui sta iniziando ad avere una percezione e a prendere precauzioni, ma non tutti hanno una nozione corretta della cosa. Ieri, quando sono tornato al lavoro, ho visto tanta gente al bar. Domenica c’è stata una manifestazione pubblica, con tante persone. Il governo ha cominciato adesso a chiudere scuole e università, noi infermieri abbiamo duplicato il lavoro. Immagino come sia la situazione in Italia, si vede alla TV“.

“Qui in Francia prima non ci si poneva il problema”

La Francia, invece, in piena emergenza sanitaria considera l’allarme Coronavirus di primaria importanza. Luca, 42 anni, di Milano, vive a Caen, Normandia. “All’inizio avevo paura di come stesse reagendo la Francia. La vedevo molto libera, non si poneva ancora il problema, era come se il Covid-19 toccasse solo l’Italia e non potesse spandersi agli altri Paesi. Poi piano piano sono arrivate le prime conferenze stampa di Macron, le restrizioni, le quarantene. Tutto blandamente. La settimana scorsa, per esempio, c’erano le elezioni. Ora spero che si dia un buon colpo alla quarantena. Si prende come esempio l’Italia. Il messaggio è che la quarantena esiste e che anche qui all’estero va adottata subito“.

Ti manca Milano, l’Italia? “Sempre, tutte le sere. Il mio pensiero fisso è ai miei genitori, con età e condizioni fisiche a rischio. Queste condizioni accentuano ancora di più la nostalgia che ho del mio Paese, della mia città, dei miei amici e della mia famiglia.”

Pensa che al telegiornale guardo di più i servizi italiani piuttosto che questi francesi. Un po’ surreale, come se le quattro mura in cui sono fossero quelle della mia casa a Milano e non quelle di Caen.

Il Coronavirus all’estero ha colpito anche la Spagna, a ruota dopo l’Italia

Giulia ha 34 anni, vive a Barcellona, dove si è trasferita da Milano una decina di anni fa. Lì fa la costumista e sta per partorire il suo secondo figlio. “Sono abbastanza amareggiata, sarei dovuta venire a casa mia a Milano ma poco prima sono arrivate le notizie della zona rossa di Codogno. Il giorno dopo sono rimasta attaccata alla televisione ed ero combattuta, volevo venire a vedere la mia famiglia, ma non me la sono sentita. Vengo in Italia un paio di volte all’anno soltanto, scendere sarebbe stato importante. Una sorta di sesto senso mi ha fatto decidere di non venire, con grandi pianti. Sarei potuta rimanere lì con un bambino e con il pancione e non sarebbe stato il massimo“.

Quando in Italia siamo entrati nel pieno del panico lì in Spagna era ancora tutto tranquillo. “Siamo una decina di giorni dopo. Anche se con gli spostamenti e le connessioni tra Paesi, c’era da aspettarselo. Da qualche giorno siamo isolati anche noi. Andiamo a ruota dietro l’Italia. Le scuole sono chiuse, noi siamo chiusi in casa. Non puoi controllare, decidere, programmare, si può solo sperare. La situazione italiana mi fa molta tristezza, guardo prima il TG italiano e mi viene da piangere. Non so bene quando potrò tornare e la cosa mi rattrista molto, anche se sono abituata a vedere poco la mia famiglia. Mi fa sentire impotente“.

In casa il senso di appartenenza e di protezione è molto più forte. Si sopravvive, diamo spazio alla creatività, pitturiamo, abbiamo dipinto la terrazza, facciamo giardinaggio. E naturalmente ci facciamo delle grandi magnate.

Da Londra: “Non sprechiamo energie in polemiche alimentate dalla natura”

Martina ha 36 anni e una dote per la scrittura che spero non abbandoni. Da qualche anno vive a Londra e non più in Brianza. Lì ha creato una splendida famiglia, con il suo compagno e con il suo bimbo nato da poco. Mi scrive a proposito della situazione Coronavirus lì all’estero dove risiede.

Mi accontenterei del metro di distanza – scrivevo così ai miei in Italia quando tutto questo era solo all’inizio. Vivere a migliaia di chilometri di distanza, con un mare e quattro dogane di mezzo, ci ha abituato a stare lontani e a vederci solo in videochiamata, senza sapere quando potersi riabbracciare. E così, da quando vedo che lo fate anche voi, pur essendo geograficamente vicini, sento meno la distanza. È un paradosso che mi ricorda che il bicchiere è davvero mezzo pieno o mezzo vuoto a seconda di come lo guardi.

Potrei vederlo svuotarsi inesorabilmente se mi accodassi al pianto di chi denuncia ‘Ci hanno abbandonato’, italiani terrorizzati, increduli, scioccati per l’approccio del governo britannico all’emergenza. In realtà, dovremmo essere abituati al fatto che ‘Qui non è come in Italia’. Forse dovremmo guardare il bicchiere riempirsi, vedendo che qui uno solo parla una volta al giorno spiegando apertamente qual è la linea e perché si è deciso così. Vedendo che i cittadini si adeguano immediatamente e si autodisciplinano nella maggioranza dei casi.

<<La cosa più contagiosa? Il panico>>

In momenti come questo io apprezzo una linea di governo che parla poco e decisamente in modo freddo, crudo, ma pensa a un dopo, che fa scelte che possono sembrare impopolari ma che in realtà mirano a tutelare i più vulnerabili. Bisogna leggere tutto fino in fondo e non fermarsi a ‘Preparatevi a perdere i vostri cari’. Sto dicendo qualcosa di scellerato, non italiano? Il contrario. Mi fa male che siamo un barzelletta, che si permettano di dire che gli italiani ‘Hanno chiuso tutto per avere la scusa di stare a casa e non lavorare’.

La cosa realmente più contagiosa del Coronavirus anche all’estero è il panico, la sospensione del pensiero critico, l’abbandonarsi alle emozioni, e queste purtroppo sono anche negative, xenofobe. Guardare il bicchiere mezzo pieno per me è pensare che questo chaos davvero possa permetterci di risvegliare la nostra creatività, ultima risorsa rimasta, imparando ancora una volta dai bambini. Il mio non sa cosa succede fuori, ma non l’ho mai visto così contento ora che il papà e la mamma non si alternano o scambiano il passeggino in stazione, ma stanno insieme tutto il giorno.

Apprezziamo le piccole cose che normalmente ci sfuggono, non sprechiamo energie in polemiche alimentate dalla paura. È un momento unico e irripetibile in cui, nel mondo intero, siamo tutti uguali.

QUI la testimonianza di Samira, dal Messico

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