Oggi è uno degli chef più famosi del mondo (4° nella classifica The World’s 50 Best Restaurants) e la sua cucina ha una duplice mission: allietare e stupire i commensali, ma anche preservare e far conoscere il patrimonio alimentare del suo Paese. Virgilio Martinez è nato il 31 agosto 1977 a Lima, Perù. Ha cominciato a cucinare a 17 anni le prime cose, ma sul serio a 20 anni.
Il suo primo maestro è stato André Soltner del ristorante Lutèce a New York, ha frequentato l'istituto Cordon Bleu in Canada e poi ha lavorato in una trentina di ristoranti sperimentando concept e cucine di tutto il mondo, italiana, francese, asiatica, giapponese e, ovviamente, peruviana. Ha iniziato a Londra, poi ha girato: Spagna, Bogotà, Asia, di nuovo Londra, qualche mese a Francoforte e Canada per due anni.
Il suo primo piatto da chef? Tiradito de concha, marinato con lime e verdure (il tiradito è una ricetta peruviana che si potrebbe tradurre “carpaccio”, in questo caso di capasanta, ndr). I suoi ristoranti a oggi sono tre: uno a Lima, il Central, e due a Londra, il Lima Fitzrovia e il Lima Floral.
A cosa attribuisce il successo internazionale della cucina peruviana?
“Abbiamo avuto l’intuizione di “esportare” la nostra gastronomia e di farla conoscere al mondo. La nostra fortuna è avere un incredibile mix di culture – Inca, spagnola, giapponese, italiana – e una biodiversità straordinariamente ricca. Oggi mangiare “naturale e sano” è sempre più importante, e in Perù è possibile grazie alla disponibilità di cibi vari e naturali. Ogni scelta gastronomica ha un impatto sociale e crea identità. E ciò è particolarmente tangibile in Perù per le strade, nei mercati nelle sagre, dove si sperimenta l’atmosfera conviviale e amichevole. Nel caso specifico del Perù, la gastronomia unisce e crea identità”.
In quale percentuale usa prodotti peruviani?
“Al Central di Lima uso solo prodotti peruviani, perché da noi c’è di tutto, cacao, olio d’oliva, sale, latticini, carne, pesce. Abbiamo l’Oceano Pacifico, le montagne, dove crescono semi, tuberi, patate, grano, quinoa, e l’Amazzonia che produce frutta esotica ed erbe. Se da un lato questa ricchezza semplifica il lavoro dello chef, mettendogli a disposizione una varietà incredibile di ingredienti, dall’altro richiede un grande impegno per valorizzare in modo globale ciò che è locale. Il cibo peruviano va tutelato in termini di sostenibilità, commercio equo, tracciabilità geografica e storica del prodotto, informazioni sul produttore. Trasformare tutto ciò in un’esperienza gastronomica di alto livello è la sfida degli chef peruviani, o almeno è ciò che provo a fare io”.
Con quanti ingredienti lavora abitualmente?
“Il menu degustazione “Alturas” prevede 17 portate, cambia ogni tre mesi ed è focalizzato sulle altitudini, dal Pacifico a Machu Picchu. È un viaggio attraverso il Perù e i suoi ecosistemi, durante il quale si assaggiano patate sconosciute (ce ne sono 3000 tipi, ndr), frutti di mare, erbe della giungla, cacao, caffè e foglie di coca. Ecco, per preparare questo menu, servono 365 ingredienti.
Adesso vige la tendenza del foraging, e il Perù sembra il posto ideale per praticarlo…
A dire il vero noi lo facciamo da sempre, fa parte della nostra cultura raccogliere gli ingredienti che crescono spontaneamente in natura. Ora lo facciamo in modo più strutturato grazie a Mater Iniciativa, un’associazione che occupa della ricerca dei prodotti, della loro contestualizzazione e classificazione. Non è propriamente foraging, ma una scoperta continua di idee, storie, cervelli, popoli, luoghi… Non si tratta di prendere le materie prime ma di imparare a trasformarle in qualcosa di eccezionale senza perdere di vista lo scopo del nostro lavoro”. Perché lo facciamo? La risposta è fondamentale per renderlo un lavoro autentico e sostenibile. Mater Iniciativa organizza tre spedizioni al mese. Non riesco a partecipare a tutte, ma vado almeno una volta. Saliamo fino a 4000 metri sulle Ande, ci addentriamo in Amazzonia, affrontiamo climi umidissimi o ghiacciati e registriamo tutta l’esperienza per poi trarne qualcosa di significativo. Il nostro lavoro in cucina è cambiato grazie a questo progetto. Per noi è diventato imprescindibile conoscere le materie prime da ogni punto di vista e non solo alimentare. Ci confrontiamo costantemente con antropologi, sociologi, filosofi per elaborare le informazioni in modo interdisciplinare, e a volte abbiamo bisogno di interpreti per incontrare le comunità indigene, non solo per la lingua ma per farci aiutare a capire la loro diversa visione delle cose”.
Qualche esempio?
“Sulle Ande ho osservato i loro metodi di coltivazione, raccolto e impiego, e li trovo all’avanguardia. Curano la loro terra, la “Pachamama”, la ringraziano quotidianamente per i suoi doni. Non si limitano a prenderli e consumarli, hanno consapevolezza del loro valore. In fondo, alcune cose le abbiamo conquistate: pomodori e patate arrivano da Perù, Bolivia e Cile, ed esportandoli abbiamo salvato dalla fame un sacco di persone per secoli. Ecco fin dove si può arrivare attraverso la gastronomia. Questo è ciò che mi appassiona al cibo, conoscere più che per riempire la pancia, la mia e quella dei miei commensali. Mi rendo conto di avere qualcosa di molto prezioso per le mani, e girare il mondo per cucinare è il modo migliore per divulgare queste realtà remote. Per non banalizzare questo patrimonio e farlo durare nel tempo, dobbiamo però migliorare costantemente la nostra qualità e i nostri strumenti”.
Quali tecniche ha imparato dai popoli indigeni?
“Per esempio ho imparato a cucinare sotto terra e a usare le foglie di coca”.
Scommetto però che lei non usa la coca in cucina
“Invece sì, usiamo spesso la farina di foglie di coca. Ma poiché è un ingrediente troppo noto per altre caratteristiche, va spiegato e non sempre ce n’è il tempo”.
Lei è uno chef viaggiatore, dove la troviamo di sicuro?
“Il Perù è un paese pieno di contraddizioni, anche se è molto migliorato. Quando ho cominciato a fare il cuoco era un paese pericoloso e ho dovuto partire. Oggi invece è sicuro, le città sono belle e io adoro viverci. Vado a Londra 3 o 4 volte all’anno per qualche giorno e giro parecchio. Ma chi mi vuole conoscere può andare in qualunque giorno al Central di Lima. Se non ci sono io, c’è mia moglie, co-chef del Ristorante”.
I principi base della sua cucina?
“Prima cosa, la provenienza di ogni ingrediente: origine, chi lo fa, perché e per chi. Poi la tecnica. Personalmente mi sono formato con quelle classiche, ma ora ne sto sperimentando di antichissime, come la cottura sotto terra, Pachamanca: si fa una buca, alla base si mette una pietra surriscaldata e foglie di pannocchia, sopra si appoggia il cibo da cuocere, carne, verdure, ciò che si vuole. Quindi si copre con altre foglie, pietra calda e terra e si lascia cuocere per tre ore”.
Facile sulle Ande, ma come si fa in un ristorante di Lima?
“Di spazio ne abbiamo qu