5th

Marzo

Viviana Varese, chef del ristorante Alice

È donna, è pesce ed evoca qualcosa di favoloso

Così la chef Viviana Varese spiega il molteplice significato di Alice, sirena neo-stellata che sguazza felice non lontano dalla meneghina Porta Romana. Un ristorantino dall’elegante minimalismo, dove tutto parla al femminile. Persino quando porta i capelli corti. Come fa la vivida Viviana: classe 1974, sangue salernitano nelle vene, il sole di Maiori negli occhi e una determinazione che rima con passione e dedizione. Perché ci vogliono forza, cuore e carattere per capitanare un’intera brigata di cucina.

Anche se lei non è sola. Al suo fianco spicca infatti la socia Sandra Ciciriello, puntigliosa maître sommelier dalle origini pugliesi. E con un verace passato da pescivendola al mercato ittico di Milano. Della serie: la donna del vino e della spesa. Quella capace, per dote naturale, di scovare la migliore materia prima. Sia essa marina o di cantina. Tant’è che la variegata eno-carta contempla pure una sezione tutta dedicata a “Le donne divine”, in cui compaiono i nettari friulani di Patrizia Felluga, quelli campani di Marisa Cuomo e quelli calabresi di Lidia Matera. Che firma Donn’eleonò, rosato e fruttato figlio di nerello mascalese e magliocco. Come ben racconta l’altra sommelier di sala: la giovane Alessandra Arnese. Esile ninfa delle vigne.

Viviana, cosa vuol dir creare?
“Significa attingere dalle proprie radici. Da quello che abbiamo vissuto. Per poi mettersi in gioco, avendo il coraggio delle proprie idee. Senza dimenticare che la creazione è sempre un parto. Una maternità”.

Quindi cos’è per te il cucinare?
“È un atto sacro. Un gesto d’amore. È come dare la vita a un figlio. Ma è anche una magia che ti fa sentire bambina”.

Insomma, un ritorno all’infanzia. Mi sa che qui c’è lo zampino della mamma.
“Sì, è mamma la mia fonte d’ispirazione. Ha fatto la cuoca per quarant’anni e mi ha insegnato molto. Mio padre, invece, mi ha trasmesso l’adorazione infinita per il prodotto. Lui si emozionava sempre quando trovava qualcosa di buono”.

E l’incontro con Sandra?
“È stato decisivo. Ho iniziato a osare, pescando dalla mia biblioteca di sapori. Ho ridotto le porzioni. Cambiato la concezione del piatto. Sono partita dalla tradizione per poi stravolgerne aspetto, forme e consistenze. Affinando la mia filosofia di cucina. E imparando a reggere lo stress e la fatica. Del resto, sono nata per soffriggere”.

Finalmente un modo ironico per non dire “soffrire”. E comunque, tu sei bravissima a far sfrigolare l’aglio nell’olio per preparare pasta e patate. Che è una rivisitazione di quella che faceva tua madre, vero?
“Esatto. Volevo riscoprire un gusto legato ai ricordi. Però mi sono detta: se fosse più buono, sarebbe ancora meglio. Così ho cucinato una pasta – quadrata – con crema di patate, estrazione di basilico, pecorino e totanetti appena scottati. Ho preso spunto dalla memoria, mutando il pensiero”.

E chi sono stati i tuoi maestri?
“Ho una stima infinita per Niko Romito. Ammiro la sua dolcezza e il suo andare all’essenza delle cose. Con Moreno Cedroni, invece, ho fatto un master all’Alma che ha cambiato il mio modo di cucinare. In realtà, ho iniziato imitando la sua costoletta di rombo. Perché prima devi copiare e farti le fondamenta. Poi, puoi realizzare qualcosa di tuo”.

E allora qual è il tuo piatto più riuscito?
“È sempre l’ultimo. Anzi, gli ultimi. Quindi, Il Carciofo – uso il sardo e la mamola – declinato in cinque consistenze: gelato, grigliato, crudo, fritto e in crema. E Travolta da un insolito panino: un trancio di ombrina cotto in un impasto di acqua, sale, timo, uova, tè nero affumicato e cenere di potature di limone. Un piatto molto materico e non certo avanguardista. Ma femminile, avvolgente e rassicurante”.

Ed emozionante. Ti ho osservato metterlo a punto durante una lezione dell’ultima edizione di Identità Golose e mi sono commossa.
“Ho voluto usare il limone in tutte le sue parti: albero, foglia, buccia e polpa. Perché il limone della Costiera Amalfitana è il frutto che più mi appartiene. E qui vi sono le potature ridotte in cenere a regalare un senso di barbecue, le foglie a vestire l’ombrina, le zeste a dar la nota agrumata e l’insalata di finocchi a sposare la polpa a pezzettni. E a corredare il tutto arrivano pure la patata cotta in una patatiera artigianale e un panino di farina di grano arso. A rammentare il panetto che fa da scrigno al pesce”.

Invece, qual è il tuo piatto più maschile?
“Il Risotto ai peperoni arrostiti. Esige molta tecnica. Perché dal peperone, che viene arrostito, passato e filtrato, si ottiene un estratto. E il riso viene mantecato con il suo amido. Anche se, in fondo in fondo, in ogni pietanza si mescolano il maschile e il femminile. Come in ognuno di noi”.

Certo. Yin e yang, freddo e caldo, morbido e croccante, sapido e delicato sono il leitmotiv delle tue delizie. Così come il salato e il dolce. A proposito, tu sei anche pasticcera.
“In cucina mi piace fare tutto. Anche i dessert. Ho frequentato i corsi alla Cast Alimenti di Brescia. E se Maurizio Santin è il mio maestro per quanto riguarda la pasticceria di base, Francisco Torreblanca lo è per la parte più creativa. Inoltre, apprezzo moltissimo Gianluca Fusto. Lo scienziato della pasticceria”.

Il tuo dolce-icona?
“L’Universo. Una mousse di cioccolato con un cuore di liquirizia e Concerto di Erbe, il liquore prodotto da mio fratello Pippo. Si tratta di un dolce bello, complesso, armonioso, riuscito bene. Un dessert ovale, lucido, nero e argento. Pensato, in origine, per essere abbinato a una statua. È stata una pura intuizione. Una vera creazione artistica. In cui ogni boccone è diverso dall’altro, anche grazie alla salsa inglese allo zafferano e all’aceto balsamico. Poi, diciamolo: io sono cioccolatosa”.

Brava, una donna dolce e salata. Perché so che tu hai iniziato girando le pizze a soli sette anni.
“Proprio così. Nel ristorante di papà. A 13 anni ero una pizzaiola fatta e finita. Nel frattempo ci siamo trasferiti al Nord, in Lombardia. Vivendo sempre in piccoli paesi di provincia. Se non avessi incontrato Sandra e non fossi venuta a Milano forse sarei ancora qui a far pizze”.

E come mai la scelta precisa di una città come Milano?
“Perché Milano poteva essere una piazza dove essere ascoltata e capita. Grazie a un pubblico eterogeneo, curioso, aperto alla novità. Io sono grata a Milano. Mi ha dato il successo. Ma io voglio continuare ad essere me stessa, tenendo i piedi per terra”.

E non voli mai in Rete?
“Assolutamente sì. Uso tantissimo internet. E amo Facebook, perché mi offre la possibilità di comunicare con tutti”.

Lunghi viaggi a parte, quando non lavori cosa fai?
“Cerco di staccare la testa. E di stare con i miei affetti e il mio cane. Un bulldog di nome Carlotta”.

Viviana va in cucina. E inizia a preparare prelibate tartarine di palamita, condendole con “Lorenzo”, un olio extravergine di oliva nocellara n° 5 (il suo Chanel). Poi chiama a rapporto la squadra. È il momento dei fiori di Bach. Che dispensa con grazia ai suoi ragazzi. Quasi fosse un nutrimento per l’anima.

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