28th

Febbraio

Roberto Lauber

Milano, 1994. Non uno, ma ben due serial killer terrorizzano la città, ma al centro di Appesi ai fili come marionette, primo romanzo di Roberto Lauber (Montedit, Euro 17,00), c’è principalmente l’assassino chiamato Il Giustiziere. Il libro rispetta tutte le regole del thriller letterario, e dunque non poteva mancare la figura dell’Ispettore, nel nostro caso Roberto Mancini. I colpi di scena non mancano, perchè, come dice il suo autore, niente è mai come sembra.

Solo nei ringraziamenti finali Lei si definisce un non-scrittore e si scopre che Roberto Lauber è un ingegnere. Da dove arriva la voglia di scrivere?
“Fin dall’infanzia ho avuto la passione per la lettura, specie per i gialli e i polizieschi. Negli ultimi mi sono spesso domandato se io fossi stato in grado di scrivere un romanzo, ripromettendomi  che un giorno l’avrei fatto”.

Dove ha trovato il tempo per scrivere Appesi ai fili come marionette?
“Il tempo era poco, ma quando ho cominciato a scrivere il mio primo libro, poi non riuscivo a pensare ad altro. Dopo un anno avevo terminato. Solo mia moglie Barbara era al corrente della cosa, ma quando il romanzo era pronto, mi sono deciso a rivelare il mio segreto ad amici e parenti. Ero curioso della loro opinione e proprio i loro ritorni positivi mi hanno convinto a cercare un editore”.

E’ stata un’impresa ardua?
“Non sapevo proprio da che parte cominciare, poi ho cercato su internet i nomi e  gli indirizzi delle case editrici ed ho spedito loro il manoscritto. Diverse piccole case mi hanno risposto, tra tutte le offerte quella di Montedit mi sembrava la migliore, e la società mi sembrava più seria di altre. Comunque passò un anno prima di trovare un editore, ma ora eccomi qui”.

Da quale idea ha origine il romanzo?
“Il libro nasce da un insieme di idee personali, maturate nel tempo: c’è la difficoltà di catalogare le mille sfaccettature di ogni persona in una singola categoria. Davvero le persone non sono mai quello che sembrano. E poi c’è la vita: gli uomini possono perseguire i loro obiettivi, ma nel percorso di ognuno intervengono poi mille fattori che lo modificano. Chiamiamolo destino, se vogliamo…”

Il Parco di Trenno, quello delle Cave, Via Marx, Via Zoja… Il ristorante Speakeasy, Joe’s Pena, le vie del centro: è stato dettagliato nell’ambientazione delle vicende.
“In un romanzo mi piace la precisa descrizione degli spazi, delle ambientazioni ed è quello che ho voluto fare per il mio romanzo. Essendo un neofita della scrittura, sono partito raccontando dei luoghi, delle vie, dei locali che meglio conoscevo: quelli della zona in cui vivo”.

E invece perchè ha scelto di collocare la storia nel 1994?
“Il 1994 è stato sicuramente un anno particolare. Milano era protagonista della storia del nostro paese, prima con Mani Pulite, poi per diversi tristi fatti di cronaca, come la bomba di Via Palestro o ancora per la politica, come  la discesa in campo di Silvio Berlusconi. Mi intrigava raccontare quell’epoca, così vicina a noi, ma anche così lontana. Per esempio mi ha creato non poche difficoltà il fatto che allora non fossero ancora largamente usati i telefoni cellulari”.

A quali altri autori si è ispirato?
“Ho apprezzato molto il Faletti di Io uccido, poi sono fanatico di Michael Connelly, Ken Follet e del nostro Camilleri, di Niccolò Ammaniti. Ancora di Giuseppe Genna e Scerbanenco, che spesso e volentieri utilizzano Milano come sfondo ai loro romanzi. Ma da loro mi sono lasciato influenzare comunque in maniera inconsapevole”.

Perchè nei ringraziamenti riserva un posto particolare a Giovanni Allevi?
“Mentre ero in una fase che chiamerei “meditativa”, quando cioè stavo valutando se scrivere o meno un libro, andai ad un suo concerto. A un certo punto, in relazione alla sua esperienza disse: “Se un uomo ha un sogno, deve usare tutte le sue forze per realizzarlo“. Sembrava stesse parlando a me. E lì mi sono detto: “Vai, scrivi il tuo romanzo“.

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