Trilok Gurtu, percussionista indiano nato a Bombay da padre suonatore di sitar e madre cantante classica, ci porta nel territorio dei cicli ritmici indiani da alcuni ridefiniti World music.
La musica indiana ha fatto sentire la sua influenza nel territorio del pop e i primi a servirsene sono stati i Beatles. In questo territorio ci aveva portato John Coltrane, innamoratosi del sitar e della musica di Ravi Shankar negli anni ‘60. Coltrane , che chiamò Ravi uno dei suoi figli, disse “sono certo che se potessi fare un disco con Ravi Shankar duplicherei le mie possibilita”. Nella stessa area ci aveva portato negli anni ’70 il trombettista Don Cherry, compagno di avventure free di Ornette Coleman. In questo territorio aveva incontrato il giovane Trilok e lo aveva chiamato per un tour in Europa. Nel 1988 Trilok incontra un’altra formazione che suona in Indian style, la Mahavisnu Orchestra di John McLaughlin. La collaborazione dura quattro anni. Nello stesso periodo gira il mondo con gli Oregon, altra band di grande impatto e di difficile collocazione.
Gurtu è un personaggio centrale di un genere che fa da ponte tra stili diversi. Secondo Down Beat è il miglior percussionista nel 1994, 1995, 1996, 2000 e 2001.
La sua tavolozza musicale è fatta di campane, gong, suoni distanti e misteriosi, acqua che scorre e altre illusioni. Il CD “African Fantasy” vale più di molte parole.
Sul palco del Blue note prova a parlare in italiano. Scherza sul fatto che i cognomi che finiscono per “u” sono sardi. Passa all’ inglese. Dice che la sua musica la chiamano fusion. Si deve chiamarla in qualche modo. Se potesse la chiamerebbe Bollywood jazz. Apprendiamo che il violinista, vestito di nero, è di Mantova e si chiama Carlo Cantini. Il chitarrista è di Los Angeles e si chiama Woody Aplanalp. Il bassista è nero, tunica e scarpe da jogging, si chiama Gros Pokossi. Il tutto suona funky quando Cantini suona la melodica e indian quando Cantini passa al violino. Gli italiani fanno la differenza?
La perfetta acustica del Blue note consente di sentire le differenze di sonorità di tutte le percussioni che Trilok si è portato sul palco. Arriva l’acqua. Trilok volta le spalle al pubblico e, come in un gioco di magia, non si capisce come i suoni siano prodotti. Musica o colonna sonora?
Il pubblico è invitato a battere le mani su un tempo scandito dal bassista. Tutti ci provano e Gurtu ci canta sopra. Il finale è funky rock.
Alle 22.00 salutano a mani giunte la fine del primo set. Sei brani in tutto. Broken rhythms, Maja, Tillana, Glimpse, Nine Horses, Seven brings return.
Subito pronti per un bis che è un ponte e non una barriera tra le culture africana e brasiliana. Trilok chiede al pubblico ”canta forte… paura di niente”. Il pubblico prova a rispondere a frasi troppo difficili. “Brazilian” e “Old Africa” finiscono in tarantella.
Giudizio finale? Affascinante e fuori dagli schemi. Più ascoltabile del mistico Gurtu che accompagnava Don Cherry e John McLaughlin.
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