Danza, teatro, poesia, cinema e musica si fondono negli spettacoli dei VisionIntoArt, gruppo newyorkese specializzato nelle performing arts. Ospiti qualche mese fa della rassegna Aperitivo in concerto, i VisionintoArt hanno lasciato una traccia indelebile nel pubblico milanese. Abbiamo incontrato la compositrice Paola Prestini, portavoce del gruppo.
Cosa succede a New York in questo momento per le performing arts e come vi contestualizzate?
“C’è un grande movimento, si guarda prima di tutto alla possibilità di fondere la pittura con la poesia, la musica e così via. Ci siamo incontrati nel 1999, provenendo da paesi ed esperienze professionali diverse. Il vantaggio di un gruppo come il nostro è attirare pubblici differenti”.
Come concepisce la Grande Mela la missione dell’artista?
“New York si caratterizza per una cosa importante che è fondamentale nel nostro lavoro. Non fai l’artista per soldi bensì perché c’è lo spirito, nel senso che lo vivi come una missione. La concezione newyorkese dell’arte è all’avanguardia. L’arte può smuovere le coscienze, può aprire la mente, può assottigliare le barriere sociali e razziali”.
Questa missione è cambiata dopo l’11 Settembre?
“L’artista ha una nuova responsabilità. E’ mutata la modalità di comunicazione verso il pubblico. E siamo ancora più convinti che l’arte possa smuovere la democrazia. La catastrofe dell’11 Settembre riguarda tutto il mondo e New York è un microcosmo di culture e popoli diversi. Pertanto, oggi ricerchiamo più di ieri il significato dello stare assieme, di scegliere una direzione piuttosto che un’altra, di trovare nuove strade per la pace”.
Il mondo ha bisogno di catastrofi per ribadire che l’artista può contribuire ad apportare delle modifiche?
“Io penso che ogni evento rilevante porti dei mutamenti. Se sfogliamo le pagine della storia ci rendiamo conto che l’arte è riuscita qualche volta ad avere ruoli decisivi”.
Nello spettacolo che proponete c’è un brano dal titolo Roots. Le radici possono essere una scorciatoia per rivalutare la diversità?
“Sì, tanto è vero che in questa performance assembliamo le ideologie più disparate con diverse canti popolari che hanno fatto da colonna sonora alla nostra infanzia. Le radici restano dentro”.
Cosa si dovrebbe fare perché anche Milano si apra una volta per tutte alle performing arts?
“Farlo, farlo senza mezzi termini, dappertutto, anche nei garage se fosse necessario. La priorità è creare sinergie tra le varie forme d’arte di questa città”.
C’è un filo sottile che unisce Milano a New York?
“La predisposizione e la volontà del pubblico a mattersi in gioco, ad aprirsi alle provocazioni dell’artista. E l’ampio consenso del nostro spettacolo nel vostro Paese lo dimostra”.
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