La normalità sta riconquistando piano piano il suo posto nella nostra mente, da luogo della memoria è tornata ad essere vissuta. Nuove dinamiche sorgono durante la fase due in atto. Oltre all’utilizzo della mascherina nei luoghi pubblici, un altro imperativo emerge nell’entusiasmo della ripartenza: tenere un metro di distanza con le altre persone. Nuovi spazi, nuove prospettive, la città viene ripensata nella sua architettura
Il distanziamento sociale appare, al momento, una soluzione per il contenimento del Coronavirus, un’accortezza legata al buonsenso per la salute collettiva. Dobbiamo ridisegnare la vita a partire da una misurazione inedita, tutti da un metro di distanza ci improvviseremo geometri con squadre in tasca, intenti a setacciare i centimetri fastidiosi che ci dividono. L’aria sicuramente acquista ora una materialità, come un vetro allontana e avvicina. È lei che rimane tra noi, in silenzio alla fine chiede solo di non essere attraversata se si supera il famoso metro.
Da un punto di vista sociale, la separazione comporta la nascita di altre forme di interazione oltre l’effusione e il contatto fisico, una delle tante sfide di oggi sarà l’esprimersi senza sfiorarsi. Ovviamente i nostri sensi ci aiuteranno ad essere evocativi con nuove modalità. Sicuramente poi a qualcuno questo divieto di accesso al corpo altrui gioverà. Colui che, sopraffatto dalla timidezza, non ha mai capito come approcciarsi con l’estraneo ora nemmeno si deve porre il problema.
La città che sale
Dal punto di vista concreto, organizzativo e urbano, invece, tenere un metro di distanza tra le persone, implica delle modificazioni logistiche della superficie. Ascensori a uso singolo, vicoli a senso unico pedonale, i 30 chilometri all’ora da non superare nei centri storici per garantire la sicurezza sui marciapiedi occupati da tavolini e sedie di bar e ristoranti.
La nuova convivenza impone nuove regole. Tutti sull’attenti, ritmo decelerato e spazio vitale. La città di oggi che procede lentamente, con poco gas può far pensare non per analogia, ma per contrasto, al dipinto di Umberto Boccioni, La città che sale.
Il quadro del 1910, considerato il primo vero manifesto del futurismo del pittore, è un elogio all’innovazione, alla compressione dell’essere tra più.
Si tratta di un’esaltazione della velocità dell’uomo industrializzato. Guardandolo, ora come ora, forse ci sentiamo incapaci di immedesimarci.
Per adesso nessun assembramento, nessuna corsa, solo contemplazione a distanza, con prudenza. Ad ogni modo, pieni di vita.
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