10th

Febbraio

Un Arlecchino da Guinness

Milano può esultare perché il nostro teatro è finito nel Guinness dei primati. E questa volta non si tratta né di una maldicevole stravaganza né di un curioso colpo di scena. Di mezzo c’è uno dei mestieri più antichi dell’umanità, l’istrione, che è non di certo il pavone tra letterine e tronisti. L’attore in questione è Ferruccio Soleri, inquilino privilegiato del Teatro Piccolo di Milano, che da cinquant’anni veste i panni di Arlecchino, servitore di due padroni. Per oltre duemila volte, il bravissimo attore fiorentino ha portato in scena la pièce di Carlo Goldoni, che sotto l’auspicio della regia di Giorgio Strehler è diventato un diamante della scena teatrale del ‘900.

SOLERI DA PRIMATO  – Quelle acrobazie, il suo stile inimitabile e quella mimica fantasiosa hanno convinto il comitato del Guinness World Records a dargli il meritato riconoscimento. Tuttavia, pensare a Ferruccio Soleri, che ricrea a ripetizione lo stesso ruolo per mezzo secolo, può lasciare lo spettatore afflitto dalle perplessità. Entrare e uscire da un camerino non è mica fare l’impiegato, aspettando l’età pensionabile? Guai se il teatro fosse questo! Eppure Soleri è riuscito a trasformare l’atto rituale in una sentenza scenica sempre aperta, in continua evoluzione, riportando la Commedia dell’Arte, nel sorpasso dell’accelerata goldoniana, al centro dei dibattiti.

OLTRE LA COMMEDIA DELL’ARTE – Milano ha dimenticato in diverse occasioni la Commedia dell’Arte, rimbambita col fumo negli occhi di lustrini, pailletes e altre diavolerie. Tutelare di più tale genere, ci avrebbe permesso negli ultimi anni di perdere meno il contatto con la realtà. Una battutaccia volgare del primo malcapitato ci solleva più di un lazzo di Arlecchino?  Quando l’attore indossa la maschera attua un processo di nudità, molto più forte di quanto non sia svestire l’ultima attricetta di scena. Perciò l’Arlecchino di Soleri è da primato: qui non è questione solo di repliche o numeri, ma di quanto questo interprete sia stato all’altezza di vestire e svestire “la maschera”, metà uomo e metà dio, in un atto puro e magico, che ha tentato di preservare il palcoscenico dal falò della vanità. E Milano gli deve molto.

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