La Traviata moderna secondo Robert Carsen al Teatro La Fenice di Venezia. Pop e contemporanea, Violetta in guêpière incanta il pubblico
E chiudere gli occhi per fermare qualcosa che è dentro me… Capire tu non puoi. Tu chiamale se vuoi emozioni quelle che regala la regia di Robert Carsen per La Traviata, capolavoro della lirica in scena al Teatro La Fenice, Venezia, proprio lì dove l’opera in tre atti di Giuseppe Verdi debuttò nel 1853 e si rivelò un sonoro fiasco.
Non è esagerato un incipit del genere se il preludio, tutto sesso e soldi, introduce una Violetta così maledettamente pop e moderna (e in guêpière). Se tutto è mescolato come se fosse un carnevale, lo stesso che fa da sfondo alla morte di lei, solo che ora, in scena, ci sono le impalcature di un misero studio di un pittore e c’è un televisore, al fianco del letto, acceso ma fuori sintonia.
Violetta pop: La Traviata di Carsen al Teatro La Fenice
E prendere a pugni un uomo solo perché è stato un po’ scortese, per tornare all’inizio, è quello che vorrebbe fare il padre di Alfredo al figlio quando, nel secondo atto, lo rimprovera per aver disprezzato in pubblico la donna amata, a una festa in maschera.
Festa da febbre del sabato sera che avviene in un night club, tra ballerine un po’ Cher in Burlesque e un po’ Liza Minelli in Cabaret. Non mancano, tra gli invitati, quelli che Di Madride noi siam mattadori: matadores spagnoli prima, copiati con la carta carbone dai Village People di YMCA, ora.
Per farla breve, di ciò che avrebbe dovuto intitolarsi Amore e Morte, da La dama delle camelie di Dumas figlio, il regista canadese Robert Carsen ne ha fatto un gioiello originale, fuori dagli schemi e mai volgare. Un’estasi pop che porta lo spettatore a pochi millimetri da quella sensazione che prova Violetta alla ribalta un attimo prima di morire, un abbagliante slancio vitale dorato e poi il vuoto, la morte, gli applausi.
Stravolgere per rendere contemporaneo, come voleva Verdi
Continuerò questo articolo con una di quelle che dovrebbe essere, in realtà, una considerazione finale. A quelli che Capire tu non puoi, è necessario riflettere sul fatto che ri-vestire un’opera d’arte non significa stravolgerla. Si rende curiosa, “contemporanea per parlare ai contemporanei”, come Verdi avrebbe voluto. Si scatena così quel brusio nella testa di chi osserva che non si placa fino a quando non si soddisfa la voglia di riascoltare la partitura.
Si rimane estasiati e attoniti e il capolavoro continua anche fuori dal teatro, con addosso la giacca, perché Campo San Fantin, La Fenice, Venezia tutta regala una Serenissima sensazione di rapimento, incanto, visibilio.
E dunque anche se in Verdi secondo Carsen ci sono forti assonanze con le coreografie spiazzanti di Matthew Bourne (quello del Lago dei Cigni tutto al maschile) o con la fotografia dell’estroso e hollywoodiano David LaChapelle, l’impatto emotivo è tale che anche il più cinico e diffidente degli spettatori non può che commuoversi al grido di Amami Alfredo.
Se non tutti approvano una nuova interpretazione (è anche questa croce e delizia di quando si ha voglia di sperimentare) non a tutti, dunque, è data una spiegazione dal regista stesso. “Né io né lei dobbiamo a chicchessia conto delle nostre azioni” come scrive Giuseppe Verdi per tacere le voci di quando condivideva la sua residenza parigina con Giuseppina Strepponi, stella della lirica di allora e forse fonte di ispirazione per la figura della protagonista de La Traviata.
L’amore trionfa, anche nell’espressione di ora, dove Violetta è ancora di più una meretrice, redenta dalla passione, che muore fragile e innamorata. Anche qui dove, fra bollenti spiriti e qualche presenza pura siccome un angelo, delle banconote, centinaia, migliaia di banconote, riempiono la scena, diventano un prato, sono gocce di pioggia, vengono usate al posto del ghiaccio nei secchielli per le bottiglie quando Libiam ne’ lieti calici. Così spiazzante, come l’ipocrisia borghese dell’epoca. Così fisico e carnale, rumorosissimo, come il battito di mani inevitabile al momento degli inchini.