Blinded by the light è il film nelle sale ispirato alla leggendaria musica di Bruce Springsteen. E che parla di voi: Javed, il protagonista, e io (che io sono uno springsteeniano e conosco a memoria ogni verso delle sue canzoni) siamo stati entrambi dei figli che sognavano di rendere fieri il proprio padre. Ecco perché andare a vederlo
Accecato dalla luce. Non vedevo mio padre da 13 anni. Rivederlo mi ha fatto uno strano effetto. Non è cambiato per niente, ho pensato. O forse lo sono io e ho imparato ad accettare. A lasciar correre. Fatto sta che in sala al cinema eravamo in 8 a inizio proiezione. Vicina a me, mia moglie, Franci. Blinded by the light inizia raccontando di un immigrato paki che con la sua famiglia si trasferisce a Luton, non lontano da Londra, ma quel tanto che basta per sembrarne il buco del culo, tanto che Javed, il protagonista, lo dice quasi subito: “Guarda quante macchine dirette verso la City. D’altronde… chi si fermerebbe mai a Luton?“. Lui e la sua famiglia. Subito presi di mira dai simpaticissimi bimbi inglesi che, per accoglierli, gli pisciano sullo zerbino.
Veniamo al film. La storia continua con la redenzione di Javed attraverso la folgorazione per i testi di Bruce Springsteen. Grazie a quelle parole che gli sembrano raccontare esattamente di lui trova ragazza, coraggio (irresistibile la scena di Thunder Road cantata con le cuffie al mercato), un lavoro all’Herald come giornalista. Ambizione e speranza di diventare scrittore, per poi arrivare alla fine a capire che niente però vale il legame con la tua famiglia. Non sai costruire ponti se prima facevi muri.
Blinded by the light è una storia semplice, con le pose allo specchio e le maniche della camicia a quadretti tagliata. Raccontata con quel piglio di adulazione per un mito adolescenziale, mai sopita del tutto, che fa sorridere e in alcuni momenti brilla pure di originalità. Se non fosse che io sono uno springsteeniano e conosco a memoria ogni verso delle sue canzoni, direi che più sottotitoli avrebbero giovato a chi invece non va a messa ad Asbury Park.
A pensarci, faccio il musicista soprattutto grazie a loro due. Il Boss e mio papà. Il primo mi ha ispirato, guidato, mi ha raccontato di vita vera, speranza e umiltà. Il secondo ci lavorava, in fabbrica, lo lasciarono a casa e non faceva che bacchettarmi che quello di scrivere canzoni non era un lavoro.
Bruce arrivò nella mia vita al liceo. In quel momento in cui ti ripeti, come in Independence Day “Papà vai a dormire, non mi faranno quello che gli ho visto fare a te“. Tutta quella rabbia, quel senso di rivalsa, quel vivere in provincia, mi è ripiombato addosso nella figura – perfetta – del padre di Javed che ammonisce il figlio di perdere il suo tempo scrivendo inutili poesie e ascoltando robaccia americana al pari di mio padre che aveva inventato il neologismo onomatopeico frin – frun per indicare le forsennate pennate del plettro su una chitarra.
Mio padre morì nel 2006. L’altra sera occupava i restanti 242 posti della sala 1 al cinema. E per una volta la sua presenza non fu ingombrante. Javed e io eravamo solo dei figli che sognavano di rendere fieri il proprio padre.
Andate a vedere Blinded by the light. Bruce parla di voi.
Sull’autore dell’articolo:
Emanuele Dabbono (Genova, 1977) scrive (e canta) canzoni. Alcune sono diventate dischi di platino con e per Tiziano Ferro.
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