Il chiacchiericcio si spegne d'improvviso. Qualche secondo
di silenzio e poi il boato dell'Alcatraz accoglie i Wilco. Il locale nella sera
dell'8 marzo è sold out. La band americana appena salita sul palco comincia a
suonare. Non c'è neanche il tempo per realizzare che la magia stia cominciando.
La voce di Jeff Tweedy conquista dalla prima nota.
Un inizio così mesto per
sola chitarra e voce dà l'idea di un concerto raccolto, ma il crescendo
strumentale cambia l'intera prospettiva. Da Jesus, Etc. a The man who loves you,
da I might a Impossible Germany, si capisce che i Wilco sono una rock band. Tre
chitarre, basso, tastiere e batteria: un organico composito che risulta
impeccabile per tutta la durata del concerto. Due ore nette di musica in cui
l'acustico si fonde con l'elettrico, un sound antico che non smette mai di
emozionare, come il sole al tramonto. Le canzoni dei Wilco sono come i paralumi
che pendono sopra le loro teste, scaldano l'ambiente ma non lo abbagliano,
trasmettono familiarità e senso di appartenenza. Sul finale del set le tre
chitarre si sfidano mentre la sessione ritmica prosegue incessante, aiutata
anche da uno dei tecnici a torso nudo e baffi a manubrio che gironzola per il
palco tenendo il tempo con piatto e bacchetta. L'applauso finale del pubblico
vorrebbe trattenerli ancora sul palco, ma loro ormai sono già scomparsi
lasciando poche parole: “See you next time”.