Come la sindrome di Stoccolma, arrivi ad amare il tuo carnefice. I protagonisti dell’ultimo appuntamento del Macello Magnolia, rapiscono l’ascoltatore tanto che non si vuole essere liberati. I Keelhaul, quartetto originario di Cleveland, Ohio, prendono nome da una tortura settecentesca diffusa tra i marinai olandesi. Il sound è massiccio, ma non monolitico, abbraccia lo stoner e lo sludge: due sottogeneri del metal che incorporano elementi southern rock e psichedelici. La sezione ritmica è il fulcro della session, le chitarre sono un prezioso accompagnamento. L’abbandono estatico con cui Dana Embrose suona la chitarra entra in conflitto con la potenza scatenata da Aaron Dallison, che riesce persino a rompere una corda del suo basso.
Ad aprire la serata Bruce Lamont, noto per essere un componente dei Yakuza (formazione di avant-garde metal), alle prese con il suo debutto solista, Feral songs for the epic decline (At a loss recordings). Solo sul palco con i suoi strumenti. Chitarra acustica, clarinetto e sax, vengono suonati in modo ipnotico, stratificati all’interno dei brani grazie all’uso del delay. I fraseggi musicali in loop incontrano la voce calda e blues di Bruce diventando un canto ancestrale. Una sorta di trance mistica inonda la sua figura e di riflesso il pubblico.