Con la gola secca ci si presenta all’appuntamento con l’amore, attesa e conferma si confondono, ci si chiede se i Portshead siano davvero mai esistiti o se siano stati per quei sour 10 years, un crogiulo emotivo inscindibile. Se davvero Beth Gibbons esistesse sarebbe una regina il cui cuore piange linfa post industriale, se Geoff Barrow fosse davvero l’autore dell’archetipo trip hop, gli ultimi dieci anni di musica andrebbero del tutto rivisti.
IT’S TIME TO MOVE OVER – Dopo l’orchestrale Live in Roseland del ’98, che confermava come con due album, Dummy del ’94 che sfiora il miracolo, e Portishead del ’97, si potesse ufficializzare la paternità del trip hop ad un quartetto di Bristol restio ad ogni contatto fuori dalla sala di registrazione, i Portishead tornano con Third, il nuovo album. Il live che segue la promozione del disco piove inatteso, ventilato poco prima sembra impossibile, invece all’Alcatraz, come se l’arco di attesa durato un decennio non fosse esistito, tornano con le loro apparecchiature, la voce spezzata, convessa, acuta e viscerale di Beth. Ritorna a galla un substrato di avvenimenti, visi, gesti che ascritti alla magia degli anni ’90 intimoriscono dalla bellezza.
LIRICHE E STUFF – Con due nuovi brani dell’album spasmodicamente atteso, la band di Bristol sale sul palco con la timidezza e al contempo la certezza dei propri mezzi. Da subito chiudendo gli occhi si ha percezione di un live impeccabile, che non concede se non rare digressioni vocali rispetto all’esecuzione in studio. Energia palpabile e basi elettroniche più potenti, liriche interrotte da assalti di batteria, portano alla luce l’Atlantide del nuovo album. Su Glory Box, le teste si chinano, che nessuno faccia più soffrire Beth. Timida e con un bicchiere d’acqua in mano, le spalle incurvate e quegli uomini possenti di fianco a lei che sono la sua band, Beth Gibbons si appoggia al microfono inerme, aggressiva e sensuale come solo la sua voce sa esserlo. Una Sour Times che seppur più algida rispetto a quella urlata in Roseland, commuove, immensa e sincera come poche cose scritte.
ONLY YOU – Non è possibile scindere i brani, tutti sembrano quel random atteso, illibato nell’immaginario sensoriale della bellezza e dei brividi, Wandering Star suonata lieve, Only You dichiarata, e poi l’irruenza di Machine Gun con una cavalcata fra Geoff Barrow e Adrian Utly nuovo brano, aggressivo e martellante. Con i primi accordi il cuore sale in gola per frammentarsi in schegge, Roads è il testo, la coerenza Portishead allo stillicidio, Beth concede ogni volta una perla dei suoi segreti in un brano che riporta a luoghi lontati e momenti capitali. Da lacrime e pelle d’oca. Negli ultimi 10 anni hanno partorito un album impeccabile, tutelando la monumentale eredità di trip hop e sperimentazione dal ’91. Nulla è mutato, nessuno ha saputo colmare il loro vuoto. C’è da ridimensionare tutta la musica ascoltata in questi anni e tornare alle certezze granitiche e sublimi dei Portishead.
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