La Pietà Rondanini è l’ultima opera, non finita, di Michelangelo Buonarroti, testamento e meditazione del grande artista sulla morte e la salvezza dell’anima.
In quest’opera lo scultore rinuncia alla perfezione del corpo, trasformando il Cristo morto in emblema di sofferenza.
Lasciata incompiuta per la morte di Michelangelo, la Pietà è testimonianza degli ultimi anni del genio.
Non rappresenta il dolore della Madonna o lo strazio del corpo martoriato di Cristo: l’una e l’altro, la vita e la morte, riuniti insieme, raggiungono insieme la perfezione divina.
Dal 2 maggio 2015 si può vedere la Pietà nel nuovo museo, allestito nell’antico Ospedale Spagnolo nel Cortile delle Armi del Castello Sforzesco. La Pietà campeggia oggi al centro della sala che durante la peste del 1576 era stata destinata a ospitare l’infermeria. Una sala ampia, rettangolare, che ha mantenuto nei secoli la struttura architettonica cinquecentesca con le volte a crociera e alcune porzioni di decorazioni murarie e affreschi.
La sala è spoglia, fatta eccezione per la presenza di tre panche in rovere e una vetrina contenente la storia della Pietà, e l’ambiente è reso uniforme dalla pavimentazione in assito di rovere, la cui cromia fa risaltare il candore del marmo e che al tempo stesso ha consentito l’installazione degli impianti nell’intercapedine della pedana.
L’illuminazione della statua è stata studiata per evitare le ombre, mentre le ampie finestrature consentono alla luce naturale di diffondersi nella sala, valorizzandone gli affreschi ma senza entrare in contrasto con la centralità della Pietà.
“Statua principiata per un Christo et un’altra figura di sopra attaccate insieme, sbozzate e non finite”: questa, la sommaria descrizione di un ignoto perito, che, soffermandosi davanti all’opera, fece del gruppo marmoreo che oggi conosciamo col nome di “Pietà Rondanini”.
A differenza dei precedenti gruppi, quest’ultima Pietà è totalmente innovativa rispetto a quanto si faceva all’epoca, essendo una scultura orientata verticalmente, quindi più complessa per problemi di baricentro, cioè di stabilità. La versione originaria è conosciuta soltanto grazie ad alcuni schizzi michelangioleschi conservati presso il Christ Church College di Oxford. Poco più di due anni dopo, nel 1555, insoddisfatto di come stava procedendo la sua opera, Michelangelo decise di rielaborare totalmente il progetto iniziale, creandone una nuova versione, rimettendo così in discussione l’intera statua. Dallo stesso blocco di marmo su cui aveva lavorato fino ad allora, realizzò delle figure completamente differenti.
Michelangelo come scultore, non seguiva un processo creativo legato a schemi fissi. Fu lui il primo scultore che, nel Rinascimento, non diede né colore né doratura alla pietra marmorea, ma ne esaltò quello che lui chiamò il “morbido fulgore” con effetti di chiaroscuro, ottenuti a colpi di scalpello. La pittura, per il Maestro, era un’arte minore rispetto alla scultura (sicuramente a causa della sua bidimensionalità). L’artista considerava migliore il tipo di pittura che più si avvicinava alla scultura, ossia, quella che evidenziava le forme con il maggiore grado di plasticità possibile.
Il marmo che lui usava, era quello bianco di Carrara: andava a sceglierselo lui stesso direttamente nella cava. Per le sue caratteristiche morfologiche (cioè per la durezza e l’omogeneità della sua struttura), questo tipo di marmo era ideale per essere lavorato e modellato. Egli, dopotutto, si dichiarava artista “del levare” piuttosto che “del mettere”. Per lui, la figura finale, essendo come “imprigionata” nel blocco di marmo, doveva essere liberata dalla pietra in eccesso. La sua scultura quindi nasceva da un processo di sottrazione della materia, fino al raggiungimento della forma desiderata.
Quest’ultimo Michelangelo è più intimo ed intimista: abbandonata la magnificenza della forma delle sue opere precedenti, mette ora in risalto agli occhi dello spettatore, solo i sentimenti, e la sua riflessione sull’anima umana e sulla morte, quasi come un’ossessione, che lo porterà a lavorarvi instancabilmente fino alla fine. L’opera è una sorta di testamento spirituale di Michelangelo. La convivenza di parti molto diverse tra loro, elaborate in tempi differenti, evidente segno del travaglio interiore del Maestro, è una sorta di stratificazione dei pensieri dell’artista, condensati tutti nella medesima scultura.
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