La bellezza della morte (in dialetto siciliano). Emma Dante per la prima volta al Piccolo ha portato, anni fa, Le Sorelle Macaluso. Adesso un’opera cinematografica, in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia
C’è stato un capolavoro, senza troppi giri di parole, in scena al Piccolo Teatro Grassi qualche anno fa. La provocazione e il sentimento di Emma Dante, nella sua pièce scenograficamente vuota e buia sulla famiglia disgraziata, Le Sorelle Macaluso, hanno trafitto e commosso il cuore di chi vi scrive come non mai, come per ogni spettatore. L’idea di farne una pellicola – ora in concorso a Venezia 77 – era già nell’aria all’epoca (il cartellone è quello dell’anno 2014-2015).
Sette drammi per sette sorelle, a teatro raccontati in dialetto siciliano (al cinema, le sorelle saranno solo cinque). Un continuo babbìari (prendere in giro) la morte che non si sconfigge mai, con un pubblico assintumato (paralizzato) di fronte a una vita intera espressa sul palco. Così difficile da affrontare e che, per forza di cose, va presa ‘a muzzicuna (a morsi).
Le Sorelle Macaluso è spinoso come i fichi d’india della terra della regista. È delicato, come il profumo dei limoni proprio di Sicilia, ma anche così aspro, come il loro sapore. Doloroso come il funerale di una delle sorelle, pieno di sensi di colpa come la causa che ha provocato questa morte, colmo di rabbia come un padre vedovo e fallito, anche da defunto. Eppure la morte non trionfa mai perché i ricordi emergono dal profondo nero della scena e poi restano lì, come di contorno, senza andare via. Il ricordo, seduto in platea, è nitido: sul fondale fluttuava il giovane padre avvolto sulla figlia; la madre ancora avvinghiata al marito in quell’amplesso, ora eterno, di tanto tempo fa. Fluttuavano i sogni, rimasti sospesi, e i rimorsi, che quelli, come sempre, proprio non si vogliono arrassàri (allontanare).
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Mentre chi o cosa non c’è più ci prende ancora per mano con estrema disinvoltura, Emma Dante, con la sua visione, riesce a fare nèsciri (uscire fuori) da tutto quel buio il sentimento vero del senso di colpa, del fallimento, dell’incapacità di una madre di essere qualcuno davanti alla morte del figlio, di una sorella, di un genitore. Questo è il punto che fa della narrazione del tempo che passa – forse è proprio questo il vero protagonista dell’opera, a teatro così come al cinema – un capolavoro.
Lo spettatore è lì, da solo, nel buio e vive (sì, vive, li respira, ha la pelle d’oca, si sente fluttuare anche lui) stati d’animo che forse non ha mai vissuto prima. E alla fine applaude, come non ha mai applaudito prima. Lo ha fatto in platea, lo farà in sala. Mancherà l’esperienza tattile del teatro ma l’espressione della regista in questione, qualunque sia il suo canale di sfogo, non può che far venire la pelle d’oca.
Paolo Conte, Via con me sezione Fuori Concorso a Venezia 77
Sinossi
Maria, Pinuccia, Lia, Katia, Antonella. L’infanzia, l’età adulta e la vecchiaia di cinque sorelle nate e cresciute in un appartamento all’ultimo piano di una palazzina nella periferia di Palermo, dove vivono da sole, senza genitori. Una casa che porta i segni del tempo che passa, come chi ci è cresciuto e chi ancora ci abita. La storia di cinque donne, di una famiglia, di chi va via, di chi resta e di chi resiste (biennale.org).
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