Avrei dovuto raccontarvi di quando sono arrivato a New Orleans quel martedì mattina con la mia valigia zeppa di entusiamo. Sono finito in un albergo che un tempo era un vecchio orfanotrofio e, mentre una grossa signora meticcia mi ha accompagnato in camera, ho avuto per un attimo la sensazione di essere finito in un film stile “Via col vento”. Avrei dovuto raccontarvi di quando ho cominciato a percorrere la St. Charles avenue per posare il mio sguardo su quelle ville in stile coloniale o sui quei cimiteri che evocano vecchi riti tra sacro e profano: i riti profani della sacerdotessa voodoo Marie Levau, l’osservanza religiosa per San Luigi o le vampate di remote danze creole che sbirciavo in alcune vecchie foto della New Orleans di inizio secolo scorso.
Avrei dovuto raccontarvi del Quartiere Francese, dei suoi balconcini con tutte quelle ragazze provocanti che strizzavano l’occhio chiunque tu fossi, dei vecchi locali dove fin dalle prime ore del giorno si suonava il jazz puro al fine di imbattersi in un’atmosfera che sembrava essersi congelata nella patina del tempo. Avrei dovuto raccontarvi di quando ho ascoltato quell’incredibile performace alla Preservation Hall, vecchio tempio del jazz, dove il trombone di “Shake that thing” o il basso picchiettante di “Basin Street”, mi hanno fatto avere suggestive visioni così forti da farmi accarezzare la voce fantasma della compianta Sweet Emma Barret, la Ella Fitzgerald della città del peccato. Sì, perché in questa città era tutto così diverso ed una volta che arrivavi, avvertivi che qualcuno ti aveva fatto un maledetto sortilegio per non farti andare più via, per rimanere legato a quelle catene di libertà che si liberavano sul delta del Mississippi.
Avrei dovuto raccontarvi di quando sono salito su quel battello per attraversare l’Old Man River (così lo chiamavano il Mississippi) o quando al Jazz Museum sono rimasto per alcuni minuti in un riverente silenzio di fronte ad alcuni oggetti personali del grande Louis Armstrong, un motivo in più per essere fieri di appartenere a questa lingua di terra che i francesi avevano venduto agli americani per pochi spiccioli al fine di finanziare una campagna militare. Avrei dovuto raccontarvi di quando al Jazz Festival, indimenticabile woodstock della musica afro-americana, ho abbracciato il bluesman B. B. King e gli ho sussurrato all’orecchio sinistro che proprio la magia del jazz mi aveva fatto percorrere con coraggio tutti quei chilometri.
Avrei dovuto raccontarvi di quando mi ronzava nella mente ancora la musica di quel posto ed ho conosciuto Chris: siamo diventati amici in poche ore, mi ha accompagnato alla stazione e mi ha raccontato la vita dei giovani a New Orleans. Avrei dovuto fare molto di più ma adesso che l’uragano Katrine ha sepolto sotto il fango una delle città più belle d’oltreoceano, l’unica americana a non aver subito un lifting, tutto ciò mi sembra non avere più senso. Restano istantanee della memoria, ricordi che si riaffacciano alla mia mente con prepotenza, suoni e volti che a quest’ora potrebbero già essere fantasmi. Ogni parola, ogni pensiero mi porta ad una certezza. Forse anche una parte di me è rimasta sepolta sotto quel fango, perché una parte di me è rimasta per sempre in quel luogo, adesso una città fantasma.
Comments are closed.