E fu sera e fu mattina: giorno primo.
Inizia così il toccante spettacolo israeliano Sette giorni rappresentato al Teatro Studio in occasione della rassegna sul teatro del Mediterraneo.
L’autore è Shlomi Moskoviyz e presenta un testo che parla di stati intimi molto profondi. Il turbamento che egli esprime parte da uno stato di caos e di solitudine mentale spossante che imperversa e che cerca disperatamente un ordine.
La ricerca è affannosa, dolorosa, l’equilibrio non si scorge in fretta, stati di reazione si alternano a sentimenti di forte sbandamento e sfiducia; ma una progressione esiste.
E’ questo il messaggio che egli intende trasmettere. Si tratta di quell’alchimia in cui un movimento dannato e caotico si trasforma in armonia.
La compagnia del teatro “Habima” di Israele lo rappresenta in modo singolare.
Sono proprio sette i giorni in cui vediamo muoversi, turbarsi, emozionarsi e scontrarsi i personaggi di questa piece. Sono sette i giorni della Creazione secondo il mito biblico.
Lo spettacolo racconta la vita di una famiglia -un padre, una madre, una figlia adolescente– e un antico amore della madre che ritorna dal passato a turbare i sottili e fragili equilibri che la reggono.
La trama non è originale, ne abbiamo viste e riviste rappresentazioni di triangoli amorosi, ma è il testo e la rappresentazione degli attori che rende onore a questo spettacolo.
Al centro di questa piece stanno infatti le parole che, con differenti stili (dagli slang usati dalla figlia alla poesia biblica), ci trasportano alle loro domande esistenziali e alle loro turbe emotive.
I personaggi. La figlia Netta, una “pippi calze lunghe” tutto pepe, ribelle, sfacciata, esagerata che definisce il suo stato interiore come uno stato di “inconfidenza” a metà tra curiosità e disgusto, tra passione e disprezzo. Netta si confronta con Emanuell, il poeta e scrittore, ritornato per riconquistare Tamar, la madre di Netta. È a questo punto che avviene il percorso intimo di Tamar in cui sente un raggio di luce e ne viene inesorabilmente attratta. Dopo anni trascorsi a fantasticare e a fingere felicità, sente di voler/dover lasciarsi andare.
E’ un cammino difficile e per certi versi straziante, ma è significativo e incoraggiante.
“La sicurezza è il ghetto di chi non ha fiducia” dice Tamar al settimo giorno. Momento di autentica intensità dove il sentire di Tamar si esprime in modo liberatorio e finalmente armonico con se stesso.
Complimenti Israele! Non c’è distanza geografica che faccia differenza tra il sentire umano che è universale.
di Roberta Ruggiero
Teatro Studio
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