Tante superfici si incontrano, creano un fondamento e non sembrano franare se non all’ultimo sforzo. Le parole simulano parabole situazionali, una Parigi non più innocente e ribelle come quel maggio del ’68, accoglie nel suo algido seno i giovani di Ginnastica e Rivoluzione, primo romanzo del 23enne Vincenzo Latronico, traduttore e ora autore, edito da Bompiani. Cinque giovani in odore di studi diventano fotoreporter proiettati sullo sfondo del G8 genovese e manifestazioni minori che richiamano il sangue alle mani del ’68. In mezzo agli slogan bolle ben altro del sangue, ma anche amarezza, sentore apatico per una rivoluzione già spianata ed accettata, ed amori balbuzienti e cristallini che lontani dalla rivoluzione, portano ad una consapevolezza straniante.
Qual è il tuo immaginario del ’68 e cosa ti ha spinto verso l’anno della Rivoluzione?
“L’ideale sesantottino tradisce, facile dire ’68, ma poi è così difficile distaccarsi da un modello. Mi interessava il rapporto con i nostri sogni, anche se non sono mai nominati esplicitamente nel libro, e quello che vivono i personaggi è il momento in cui i sogni si formano e se sono sbagliati portano a fare cose sbagliate. Il ’68 per come mi è stato tramandato lo ricordo da piccole cose, divisione in classi, modelli di vestiti, avvenimenti non epocali ma dove il primo grande nemico era la quotidianità.”
Abbattiamo il muro di omertà che i tuoi personaggi hanno per il fatidico ’68.
“L’immaginario del ’68 porta con sè il problema del mito: ad esempio il gruppo che proietta film di Truffaut prima di un concerto. I personaggi sono così, c’è molta diversità fra loro e il ’68 come momento storico, non hanno la rabbia che sussisteva allora, c’è un meccanismo d’imitazione, non c’è speranza che quello che fanno porti ad un cambiamento, implicitamente non lo credono possibile.”
Una nuova vita costruita in toto a Parigi. E’ un apprendimento o flashback ricercato anche attraverso l’attività di reportage?
“E’ il contrario di un romanzo di formazione, più guardi gli scenari attraverso le foto, più senti il confronto con la realtà, le cose ti succedono ma non hai relazione con esse. Ora per rivivere quell’energia del ’68 si dovrebbe trovare una rabbia che superi la persona singola e arrivi al problema. Ho scelto Parigi che è descritta con frammenti dell’immaginario del ’68, quasi fosse un fondale da operetta, per sottolineare che sono scappati perchè non erano in grado di gestire le cose quotidiane, vedi Milano, dichiarando quanto sia più facile relazionarsi con una tradizione iscritta.”
Eppure questo immaginario bandito è uno sfondo necessario, in primis come materia per la tua finzione narrativa. Quali altri immaginari potrebbero ispirarti?
“Ho scritto delle favole, una su un principe e un poeta con lo stesso nome. L’omonimia sconvolgeva la storia e i fatti, così quando il principe andava a caccia di draghi il poeta prendeva il suo posto, tanto avevano lo stesso nome e nessuno se ne accorgeva, ma questi in quel ruolo era crudelissimo. Le storie più belle sono quelle già sentite mille volte, Andersen, i fratelli Grimm, la letteratura greca.”
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