Luciano Linzi è il direttore artistico di JazzMi, il festival che ha riportato Milano al centro del mondo della musica jazz. Nell’intervista che vi proponiamo, ci racconta il legame della nostra città con il genere musicale dal 2012 nel patrimonio Unesco
“A Milano il jazz è pop” parola di Luciano Linzi, direttore artistico di JazzMi, il festival che ha riportato il live jazz nel capoluogo lombardo. Giunto alla quarta edizione, l’evento ospiterà quest’anno (dall’1 al 10 novembre) grandi maestri internazionali del genere musicale. Con i concerti, fra gli altri, di Herbie Hancock, John McLaughlin, Archie Shepp, Kenny Barron. In programma, anche artisti che hanno scritto le più importanti pagine del jazz italiano da Enrico Rava a Enrico Intra, Paolo Fresu e Stefano Bollani. Luciano Linzi è una figura importante della scena artistica e discografica italiana, dal 2005 direttore artistico della Casa del Jazz di Roma. Lo abbiamo intervistato a pochi giorni dall’inizio di JazzMi 2019.
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Luciano Linzi: quando nasce l’anima jazz di Milano?
Il legame di Milano con il jazz risale all’inizio del secolo scorso. È stata una delle città che ha immediatamente risposto a questo fermento rivoluzionario che muoveva i suoi primi passi. Già nel 1918 c’era una formazione orchestrale jazz. È quindi un amore che parte da molto lontano. E che è cresciuto nel corso dei decenni. Generando formazioni e musicisti che si sono fatti valere anche a livello internazionale: Franco Cerri e Enrico Intra sono entrati nella storia. A Intra si deve anche la nascita di un locale come il Derby, tempio del jazz a Milano oltre al Capolinea.
Come nasce l’idea di creare un evento come JazzMi?
Con Titti Santini abbiamo immaginato un festival cercando di riannodare questi fili con la storia. Abbiamo pensato fin dalla prima edizione di proporre un festival con una formula contemporanea e di evento diffuso. E che ricordasse l’importanza del ruolo di Milano nel proporre questo genere. Celebrandone l’attualità e anticipandone il futuro, con i protagonisti dei prossimi anni. Fulcro del festival è il Triennale Teatro dell’Arte, che in passato ha ospitato colossi del jazz: John Coltrane, Miles Davis, Duke Ellington.
L’idea alla base del festival è proporre una manifestazione che faccia sentire forte tuttora la vitalità e dinamicità di questo genere musicale. Che periodicamente viene dato per moribondo ma che in realtà è più vivo che mai. Anche grazie alla sua stessa natura, continua a rigenerarsi attraverso tante commistioni e combinazioni. Accanto al cartellone importante, abbiamo immaginato sezioni con eventi paralleli che prendono ad esempio in esame il rapporto del jazz con la fotografia, la letteratura e il cinema. L’entusiasmo e la partecipazione popolare alle passate edizioni confermano quanta voglia di jazz ci sia.
Gli strumenti che abbiamo usato sono quelli di oggi, un’immagine di freschezza e attualità, di incrocio fra culture. Il jazz è nato così. È una commistione di stili e culture. Alla matrice afroamericana, si sono integrate culture europee, inclusa l’italiana. È il genere musicale più inclusivo. Quello che in questo momento può raccontare meglio il nostro tempo. In questi ultimi 30/40 anni sono nate scuole importanti, inclusa la nostra, su modello americano o afroamericano che riesce a formare una via italiana al jazz.
In questo senso quindi il jazz è pop?
Uno dei valori più importanti di questo festival credo sia quello di aver dimostrato che il jazz può essere una musica che travalica i recinti, le barriere, i confini che una parte del pubblico che segue questo genere intende mettere. È una musica che è nata libera, che ha sempre dialogato con le altre espressioni artistiche. Quindi è sempre stata molto aperta e molto “bastarda”. Quello che oggi accade è che sta crescendo una generazione di musicisti che oltre a Charlie Parker e Duke Ellington ascolta anche i Nirvana, il punk e la musica elettronica. La manifestazione milanese è apprezzata anche dal pubblico giovane perché mette insieme tutta una serie di stili, la storia ma anche l’attualità, il futuro e la capacità di mescolare i generi.
Qual è il suo rapporto con Milano?
Ho vissuto a Milano per 15 anni, dal 1990 al 2005 quando ero dirigente della Warner e ho visto la città attraverso fasi molto differenti. In questi ultimi anni, probabilmente anche grazie a Expo, ha riacquisito un’energia, una capacità di essere catalizzatrice di forze importanti, dal punto di vista della finanza ma anche creativo, che le permette oggi di essere forse davvero l’unica città italiana di altezza internazionale.
La Milano che mi piace frequentare ancora adesso è la Milano che mi permette di toccare con mano e di sentire questa atmosfera. Corso Garibaldi, Moscova, Corso Magenta: girare per la città di lunedì sera e vederla così viva con bar e ristoranti tutti pieni, un sacco di gente per strada… beh, si respira un’atmosfera davvero frizzante, che ti fa immaginare che ci sia un modello di città che possa essere un esempio per il resto del nostro paese.
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