In Italia i registi diventano una rarità perché cedono il più delle volte il posto ad insignificanti direttori di scena. Giancarlo Sepe è uno dei pochi superstiti sull’isola felice del palcoscenico. Il tocco visionario e corale della sua regia, coagulata su un’impalcatura drammaturgica, ottiene ancora risultati sorprendenti: Napoletango non è il solito affogato al caffè tra i cliché partenopei, è piuttosto un viaggio musicale sussurrato nell’anima passionale dei popoli del Sud.
NEL VENTRE DI NAPOLI – Il tango libera la dea scalza partenopea dal napoletanismo, sfregiato dai “canzonettari” neomelodici, per restituire la sua carnalità con citazioni teatrali, musicali, cinematografiche, in uno sguardo circense dal timbro felliniano. Un cast di bravi attori, in bilico tra la verve dell’istrione e l’energia di un saltimbanco, fugge dalla prigione del palcoscenico e invade il pubblico, lo coinvolge, lo travolge, lasciandosi alle spalle l’iconografia. Niente San Gennaro, ma la Madonna dell’Arco, dea folk-religiosa, che mette alla luce del sole le contraddizioni di una terra, in cui è sempre più labile il confine tra superstizione e religiosità.
INTENSI TOCCHI REGISTICI – Nella traccia dello spettacolo, accolto dal pubblico milanese con entusiasmo, c’è molto dell’indimenticabile E ballando ballando, che alla fine degli anni Novanta confermò Giancarlo Sepe maestro di coralità, capace di valorizzare ogni attore in scena, scarnificando l’idea del regista-despota. Nei suoi spettacoli Sepe aleggia come uno spirito, entra ed esce dalla porta della teatralità per sbottonare le riserve dello spettatore e lasciare alla riflessione senza moralismi: in Napoletango c’è l’affronto a chi si ostina a pensare che la diversità non sia ricchezza. Il finale ci spiazza, ci emoziona nella voracità del grottesco.