C'è chi ha definito il tango “una danza verticale che esprime un desiderio orizzontale“, poiché condurrebbe dritti in camera da letto. Mark O'Brien, giornalista e poeta scomparso nel 1999, non ha mai ballato un tango perché è rimasto chiuso in un polmone d'acciaio sin dall'infanzia, dopo aver contratto la poliomelite. Ciò non esclude che abbia invece avuto esperienza dell'orizzontalità: sdraiato sulla sua lettiga, dove poteva trascorrere poche ore al giorno fuori dal macchinario che lo teneva in vita, a 38 anni si decise che era il tempo di conoscere il sesso. The Sessions, in sala dal 21 febbraio, è il racconto dell'incontro, umano e non solo sessuale, tra quest'uomo dall'animo puro e Cheryl (Helen Hunt, candidata all'Oscar come attrice non protagonista).
MARK E CHERYL – Siamo a Berkeley, California. Nell'aria si avverte la scia dell'attivismo studentesco che alzò e sparse il vento della libertà sessuale, ma Mark (John Hawkes) ne resta immune: oltre alla malattia lo paralizza anche la religione. Cattolico devoto, trova un valido sostegno in Padre Brendan (il bravo William H. Macy), un sacerdote capellone che gli concede qualche suggerimento “profano” dopo averne raccolto le confessioni. Il caso ci mette del suo ed è così che lo scrittore è chiamato a redigere un'inchiesta sul sesso nei disabili fisici che lo condurrà a conoscere diversi terapisti e… Cheryl. Moglie e madre, di mestiere fa “il surrogato sessuale”, ovvero risveglia il corpo dei pazienti con il suo. Cheryl non teme etichettature: è la mente che riconosce e interpreta le problematiche di Mark, ed è il corpo, lo strumento con cui guarirle. Sei incontri, non uno di più, è la regola ma qualcosa non va come dovrebbe e i sentimenti sono dietro l'angolo. Ci sarà un happy end per una storia così drammatica? La vita di Mark cambierà dopo aver incontrato Cheryl?
UN TEMA DELICATO – Passato al Sundance Festival, The Sessions glissa facili patetismi concedendo persino qualche sfumatura ironica alla vicenda autobiografica di O'Brien. Da buon film indipendente non ci sono fronzoli, la fotografia è fredda, tutto si concentra sui personaggi e sull'esigenza di affrontare la questione del sesso e dell'affettività tra disabili e non, senza edulcorarla. Il regista Ben Lewin riesce nel tentativo senza sfoderare colpi da maestro e forse, con un cast così, se lo può anche permettere.