Noi, cittadini di Milano, dove potremmo andare a cercarci la nostra siepe di leopardiana memoria, la
siepe “che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”, facendoci sprofondare nell’infinito?
Incementati dalla metropoli, frodati dalla pioggia dei giorni ascorsi che nemmeno di un Monte stella o
di un Parco delle Cave ci lascia godere, non ci rimane che la musica di Ludovico Einaudi. Che da sola
vale quasi un verso del poeta di Recanati.
Al Teatro Smeraldo, la sera de 21 aprile, mentre i visitatori del Salone del Mobile si avviavano verso
Malpensa e Linate, saliva sul palcoscenico Ludovico Einaudi, pianista. Figlio dell’editore Giulio,
nipote di Luigi (primo Presidente della Repubblica eletto), Ludovico onora la fama dei suoi avi semplicemente in un altro ambito. Impegnato in una torunée internazionale, Einaudi è arrivato a Milano dopo Germani, Giappone e India. Sul palco dello Smeraldo interrompe il concerto solo una volta per dire grazie a tutti e per ricordare come ogni sua serata on stage sia diversa dall’altra, seguendo l’ispirazione più che una scaletta predefinita.
Il pubblico è concentrato e commosso, non lesina sugli applausi, si lascia rapire dalle note dei brani di Divenire e di Le onde. La musica di Einaudi lascia trasparire la sua esperienza come compositore di colonne sonore (Fuori dal mondo, Luce dei miei occhi, Aprile), perchè è una mucisa a suo modo narrativa, il racconto è quello che ciascuno di noi lascia affiorare. A venire a galla grazie al pianoforte di Einaudi è però anche una vena malinconica, colma di ricordi del tempo che fu, e di quelli che avremo in futro del nostro presente. Le note rincorse sulla tastiera da Ludovico Einaudi evocano i versi del buon Sbarbaro: Felicità, ti ho riconosciuta al fruscio con cui ti allontanavi. Chissà cosa pensa Einaudi del paragone, chissà dove sta la siepe davanti alla quale si accomoda per scrivere le sue note.