30th

Giugno

The Script

The Script sono irlandesi e fanno musica soul, potrebbe sembrare una contraddizione, ma ascoltarli dal vivo annienta qualsiasi dubbio. Il funk si insinua nelle loro canzoni pop con naturalezza, lasciando un retrogusto insolito. Abbiamo intervistato Mark Sheehan, chitarra e seconda voce, nonchè produttore dell’album, intitolato provvisoriamente Rusty Halo.

La vostra storia sembra quella di Cenerentola, siete cresciuti nel quartiere di James street, una zona degradata di Dublino, e siete riusciti a emergere ottenendo un contratto discografico. Cosa provi?
“Sento di essere stato davvero fortunato, io sono cresciuto nella parte peggiore del quartiere, è stata la musica a farmi intravedere una strada da seguire. Il mio sogno era quello di diventare il produttore e ora si sta avverando. Siamo io e Danny (O’ Danoghue, cantante e tastierista) a produrre l’album. Insomma è un’occasione unica, la chance di una vita”

Ascoltando le vostre canzoni emerge in modo molto forte l’influenza della musica soul. E’ abbastanza strano per un gruppo di origine anglosassone…
“Le nostre influenze vengono principalmente da MTV. Durante i suoi primi anni di trasmissione a Dublino il segnale arrivava solo dopo la mezzanotte e molto disturbato, però mi ha fatto scoprire un mondo diverso dalla mia realtà. Ho scoperto la black music e la cultura nera, i grandi cantanti americani come Stevie Wonder, e ho deciso di voler fare una musica come la loro”.

E’ per questo motivo che avete scelto di incidere a Los Angeles piuttosto che a Londra?
“Los Angeles era il posto più giusto per noi, tutti gli artisti e produttori che ammiriamo sono americani. Ad esempio Teddy Riley, il produttore di Michael Jackson in Dangerous e Invincible

Qual è l’elemento vermente nuovo nella vostra musica?
“La vera novità è che riusciamo a rispecchiare la net generation. Oggi con l’iPod nessuno si limita ad ascoltare un solo genere musicale, si passa con facilità da un estremo all’altro, e credo che la nostra musica rappresenti questo modo di fruizione. Il nostro suono ha molte componenti, e ciò che riesce ad unirle e renderlo universale sono i smetimenti che emergono”.

Qual è stato il criterio che vi ha fatto scegliere We cry e The man who can’t be moved come singoli?
“Per The man who can’t be moved è stato molto naturale. Stavamo scrivendo la canzone e ci siamo subito resi conto che era perfetta come singolo. Inoltre sono due canzoni che rappresentano bene la varietà di cui parlavo prima”.

Finora avete scritto canzoni con un ritmo molto orecchiabile, ma con testi veramente tristi. E’ così difficile raccontare dei momenti felici?
“La sofferenza è un sentimento universale che prima o poi affligge tutti, l’unica consolazione è che dal dolore emerge anche la creatività. E’ anche vero che quando sei felice sei troppo impegnato e non hai tempo per scrivere una canzone su quel momento, semplicemente lo vivi”.

Quest’estate sarete su alcuni dei più grandi palchi dei festival europei, Glastonbury e Oxegen per citarne due. Come ci si sente?
“Beh, è fantastico, anche perchè è nel concerto che il suono torna in vita, nell’album tutto si riduce a una fotografia del passato. E’ bello avere questo scambio diretto e immediato col pubblico”

Una tua esperienza da spettatore a un festival?
“L’idea del festival mi piace, ma devo ammettere che non ho mai partecipato a un festival…Fin da piccolo ho sempre preferito stare in studio a fare musica”.

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